La cosa più naturale del mondo, facile, bella.
Zaynab, la nostra ospite tunisina, non ha piacere che si racconti la sua storia e io non lo farò. Posso però dire che è una ragazza molto simpatica, socievole, e decisamente in gamba. Ha 24 anni, esattamente l’età di nostra figlia: Laura ha occhi azzurri e capelli biondi, lei ha occhi color cioccolato e una cascata di lunghi capelli inanellati di ricci, che copre con il velo quando esce di casa. Zaynab parla perfettamente l’italiano, perché in realtà è nata in Italia. La sua storia è complicatissima e dolorosa. Lei ne è fuggita 3 anni fa, e adesso può finalmente immaginare un futuro diverso.Sicuramente ce la farà, perché è forte, curiosa e positiva.
Da quando è con noi, la casa profuma di spezie e di pane caldo, una meraviglia! La cucina è la grande passione di Zaynab: lei spesso prepara pietanze marocchine che ha imparato da sua madre, e Laura le insegna i piatti italiani che ha imparato da noi (è brava anche lei). Le sentiamo chiacchierare in cucina tra sbattere di pentole e padelle, sghignazzare in bagno mentre provano i mascara, lisciano capelli, e si preparano per vedersi con gli amici. Siamo molto felici. Da qualche mese a casa si mangia benissimo, e gli altri nostri figli lo hanno capito presto. Infatti vengono a trovarci sempre più spesso, si fermano per un thé alla menta e poi a cena, e se ne partono soddisfatti con scorte di tajine e baclavà fragranti.
Adesso che il coronavirus ci ha confinati a casa, gli scambi culturali della nostra famiglia avvengono la sera via whatsapp, tra noi quattro, i due figli a Roma e il secondogenito che vive a Parigi: noi mandiamo le foto di sontuosi couscous, loro ci restituiscono quelle di parmigiane di melanzane, pizza filante di mozzarella, torta di carote. “Diventeremo tutti ciccioni”, ci diciamo tra lo scherzo e il preoccupato. E infatti da qualche giorno Laura e Zaynab si fanno su e giù le scale del condominio, cinque volte per quattro piani; io, più modestamente, qualche esercizio per gli addominali sul tappetino, prima di mettermi a lavorare. Perché, qui si lavora! Non ci stiamo mica impigrendo in quarantena, anzi: Laura segue le lezioni dell’università, Zaynab consuma la nostra biblioteca di narrativa e si è iscritta a un corso di inglese online. Mio marito poi esce prestissimo, per andare al lavoro in ospedale.
Insomma, pensavamo fosse difficile organizzarci con un’ospite sconosciuta, abituarci alla sua presenza, condividere i nostri spazi…e invece ecco, è tutto molto sereno e normale. Per noi, per i nostri figli, persino per i nostri due gatti!
Come se fosse stato così da sempre.
Le mascherine di Mustapha.
Ci sono dei rumori familiari e inconfondibili, che riportano indietro nel tempo. Come quelli delle vecchie macchina a cucire a pedali che appartenevano ai nostri nonni.
È questo tipo di macchina, figlia di un’altra epoca, che Mustapha ha comprato da un anziano signore di Napoli. È stata una delle prime cose che ha acquistato da quando vive in Italia: non un cimelio o un modello da collezione, ma uno strumento di lavoro. Perché Mustapha fa il sarto e quella macchina gli serve per cucire. Ne aveva una simile quando viveva ancora in Benin, il suo paese di origine, da cui è stato costretto a scappare nel 2017. Lì la usava per cucire abiti femminili destinati alle donne del posto. Qui invece la usa, in questi giorni, per creare delle mascherine che possano proteggere le persone a cui vuole dall’epidemia di COVID-19. L'emergenza sanitaria lo costringe a casa come tutti, sospende la sua quotidianità e la ricerca di un lavoro, spingendolo a inventare nuovi modi per riempire il vuoto delle giornate tutte uguali. E perché no, per rendersi utile.
Mustapha vive a Poggio Reale, nella casa di famiglia che Rosaria e Nunzia, due sorelle napoletane, gli hanno messo a disposizione dopo la morte della loro madre. Desideravano ripopolare quello spazio di nuove voci e nuovi volti, tenerlo vivo per mantenere la memoria: si sono così rivolte a Refugees Welcome Italia per ospitare un rifugiato e, qualche giorno prima di Natale, hanno conosciuto Mustapha. Nunzia vive in un’altra abitazione a pochi metri di distanza; Rosaria, che fa l’infermiera, ha un appartamento al piano di sotto, ma di fatto, quando non lavora, divide la casa di famiglia con Mustapha.
“A fine febbraio anche qui a Napoli le mascherine sono diventate introvabili, così, su suggerimento di Nunzia e Rosaria, ho pensato di poter dare una mano, cucendole io stesso. Ho usato delle stoffe africane, a fantasie e molto colorate. Non sono le classiche mascherine, ma proteggono lo stesso. In questo momento non posso fare molto, se non restare a casa e usare la mia macchina da cucire per aiutare le persone che conosco. Ho prodotto una cinquantina di mascherine per Rosaria, Nunzia, i loro familiari, i colleghi di lavoro e gli amici. È il mio modo di contribuire, di mostrare la mia vicinanza al Paese che mi ha accolto”.
A proposito della vita ai tempi della quarantena, Mustafa aggiunge: “Non mi pesa tanto stare a casa, soprattutto se c’è di mezzo una cosa importante come la salute. Nunzia e Rosaria mi aiutano a migliorare l’italiano, leggiamo e facciamo insieme gli esercizi. Mi spiace solo non aver potuto iniziare un corso di sartoria a cui mi ero iscritto e non poter cercare lavoro. Ho bisogno, come tutti, di lavorare. Ho sempre desiderato fare il sarto: per me è anche un modo per creare una continuità fra il prima, la mia vita in Africa, e il dopo, il mio arrivo in Italia. In pochi anni tutto è cambiato attorno a me, ma rimane il mio amore per il cucito. Un punto fermo”.
Una passione che lo porta a vivere quasi in simbiosi con la sua macchina a pedali Singer, fedele compagna di questi giorni sospesi. “Vorrei modificarla, inserendo un motore, per poterla utilizzare come se fosse elettrica. Il pedale è faticoso, rallenta. Appena finirà la quarantena andrò a comprarne uno”. Di quello che è diventato ormai il suo paese adottivo dice: “Non avevo in programma di venire in Europa. Non pensavo che un giorno sarei diventato un rifugiato, ma è andata così e non si può cambiare quello che non puoi controllare. Anche se non l’ho scelta, amo l’Italia, amo Napoli. Non è stato amore a prima vista, ma un sentimento che è cresciuto col tempo, imparando a conoscere ogni giorno qualcosa di più”.
Della sua vita passata, invece, Mustapha non vuole parlare. Non ha condiviso dettagli nemmeno con Nunzia e Rosaria. “Credo non sia ancora pronto a farlo e noi rispettiamo questa sua scelta. Quando e se avrà voglia di aprirsi, noi siamo qui”, commentano le due sorelle. “Il nostro rapporto con Mustapha è iniziato in punta di piedi, con discrezione e qualche imbarazzo. Per un po' di tempo ci siamo “studiati”, ma poi la relazione, grazie alla condivisione della quotidianità, è cresciuta. All’inizio credo che lui avesse dei timori, del tutto comprensibili, rispetto a questa esperienza. Ma ora ha trovato la sua dimensione” racconta Nunzia. Della sintonia che si respira in casa, anche in questi giorni di quarantena, parla anche Rosaria: “Io sto continuando ad andare a lavorare fuori casa, perché faccio l’infermiera. Quando torno, spesso Mustapha mi fa trovare il pranzo o la cena pronti, a seconda dell’orario. Approfittiamo di queste giornate di reclusione per cucinare - l’altro giorno abbiamo fatto la pizza - per fare ginnastica e migliorare il suo italiano. Lo aiuto a fare gli esercizi e mi fa piacere vedere che migliora. Non sbaglia più nessun congiuntivo, quasi meglio di un italiano!”.
Il messaggio di Ibrahim: DAJE ITALIA!
È passato quasi un anno da quando, il 14 Aprile 2019, mi sono trasferito a Ostia, per vivere assieme ad una famiglia italo-tedesca che ha deciso di ospitarmi. Provavo ad immaginare come potesse essere vivere con una famiglia italiana e avevo qualche timore, a causa delle differenze culturali. Ma le mie ansie sono subito sparite perché Elena, Dirk e Andrea mi hanno da subito trattato come uno di loro, come se ci conoscessimo da anni.
Per una persona come me, che non aveva mai pensato di potersi sentire a casa in terra straniera, è stata una bella scoperta. Qui in Italia ho trovato un posto che posso chiamare "casa mia". Con l'aiuto dalla mia nuova famiglia, mi sono iscritto in una scuola serale per prendere la terza media, e, allo stesso tempo, cercavo un lavoro. Fortunatamente, dopo aver superato l'esame di licenza media, ho vinto una borsa di studio di 2 anni al Collegio del Mondo Unito: potevo così proseguire i miei studi! Mi sono dovuto trasferire a Duino, vicino Trieste, ma un pezzo del mio cuore rimane sempre a Ostia.
A causa dell'emergenza sanitaria, il mio collegio un mese fa ha chiuso, come tutte le altre scuole in Italia. Mi hanno chiesto di ritornare a casa. SI! A CASA! Sono tornato ad Ostia: è stato bellissimo rivedere la mia famiglia italiana. È stato come se fossi tornato in Sierra Leone.
Durante questo periodi difficile per la popolazione italiana e il mondo ingenerale, noi, come famiglia, cerchiamo di farci coraggio. Ridiamo, giochiamo, cuciniamo, seguiamo le lezione virtuali e guardiamo la TV tutti insieme. L’unico modo che ho per aiutare l'Italia in questo momento è stare a casa e donare sangue alle persone che ne hanno bisogno. L’ho fatto una volta due settimane e vorrei farlo più spesso perché oggi l’Italia e anche la mia terra. Ce la faremo, tutti assieme. DAJE L’ITALIA.
Giulia, Amira e Tommaso: la loro vita in quarantena.
“Questo periodo di reclusione forzata a casa ci sta dando la possibilità di trascorrere più tempo insieme, a differenza di quanto succedeva prima. Abbiamo sempre avuto tutti e tre delle giornate dense di impegni, fra lavoro e studio, es era complicato incrociarsi. Ora ne approfittiamo per cucinare assieme: passiamo ore in cucina, prima ai fornelli e poi a pulire”
Giulia racconta così la nuova quotidianità che la quarantena ha imposto a lei e alle due persone con cui divide l’appartamento: Tommaso, il suo fidanzato, e Amira, una ragazza somala che da un anno vive a casa con loro. Una convivenza resa possibile dal nostro progetto “Young Together”, che promuove la coabitazione tra giovani italiani e rifugiati. “Amira prepara delle lenticcchie spaziali!” prosegue Giulia. “io posso provare mille volte, ma non mi vengono mai buone come le sue”. La cucina è infatti una delle passioni di Amira: la ragazza frequenta la scuola alberghiera e da poco ha terminato un corso di pasticceria. “Avrebbe dovuto iniziare in queste settimane il tirocinio previsto dal corso, ma, purtroppo, a causa dell’epidemia è tutto rimandato”, racconta Giulia. Nel frattempo Amira ne approfitta per concentrarsi sui suoi studi.
La convivenza nell’ambito del progetto sostenuto dalla nostra associazione è formalmente finita il 3 marzo, ma i tre ragazzi hanno deciso di continuare a condividere casa fino a settembre. “In quasi più di un anno di vita da coinquilini, posso dire che è andato tutto bene, altrimenti non avremmo deciso di proseguire. All’inizio abbiamo avuto qualche incomprensione relativa alla gestione della casa, come credo sia naturale fra persone che non si conoscono. Ma una volta che abbiamo trovato un modo per dialogare, il ghiaccio si è rotto e da lì è filato tutto liscio”.
Dopo più di un anno, è anche tempo di bilanci. A questo proposito Giulia ci racconta “Se tornassi indietro lo rifarei e anzi, continuerei a farlo anche con un’altra persona. Questa esperienza - può sembrare una banalità - ma ci ha molto arricchito, a livello personale e anche come coppia. Non condividevo casa dai tempi dell’Università per scelta, perchè sono molto gelosa dei miei spazi. Poi ho letto di questo progetto e ho pensato fosse una ottima opportunità per mettere insieme due cose: il desiderio di aiutare qualcuno in difficoltà e quello di mettermi alla prova, di superare alcune mie rigidità. E sono contenta di esserci riuscita.
Sono Abdullahi, ho 22 anni e vengo dalla Somalia.
Mi chiamo Abdullahi, ho 22 anni e sono somalo. Abito in Italia da tre anni. Sono arrivato in Europa dall’Egitto, dopo aver attraversato diversi paesi africani. Il viaggio è pericoloso e ho perso tanti amici. Le persone non muoiono solo in mare, cercando di attraversare il Mediterraneo, ma anche nel deserto. Non amo ricordare questi momenti, perché sento che ancora manca qualcosa. C’è troppo dolore.
Nel mio Paese c’è la guerra dal 1991. Io sono nato e cresciuto in una bellissima città che si chiama Merka. Dopo essere arrivato in Sicilia, sono stato immediatamente trasferito in Piemonte, a Germagno, in un centro di accoglienza straordinario (CAS). Germagno è un piccolo paese, le persone parlano solo piemontese ma sono molto gentili. Ho anche conosciuto un ragazzo del posto, Luca. Siamo diventati amici. Lui giocava a calcio con noi. Sono rimasto a Germagnano due anni, in attesa di avere i documenti. Dopo che mi è stato riconosciuto lo status di rifugiato, mi sono spostato a Civie, in un centro di seconda accoglienza.In questo periodo ho studiato per l’esame di terza media e ho fatto un tirocinio.
Dopo sei mesi, il progetto di accoglienza è finito, non avevo un posto dove andare e temevo di finire per strada. Ero preoccupato. Avevo paura di perdere tutto quello che avevo faticosamente raggiunto. Poi l’operatrice del centro di accoglienza che mi seguiva mi ha messo in contatto con Refugees Welcome Italia, che mi ha presentato una famiglia italiana che voleva ospitarmi. Vivo ancora con loro. Si chiamano Federico ed Elena. Hanno tre figli: Eugenio, Francesco e Filippo. Sono delle persone meravigliose. Per me è stato importantissimo incontrarli. Mi hanno insegnato che anche se il colore della pelle, la cultura, la religione sono diverse, l’umanità ci rende tutti uguali. Viviamo come una famiglia, mangiamo insieme, a volte cucino dei piatti somali per loro. Mi sento a casa. Abbiamo anche fatto un viaggio in Francia tutti assieme: per me è stato un grande regalo poter visitare un altro paese europeo. Anche grazie a loro, posso dire che Torino è una città accogliente! Noi abitiamo un po’ fuori città, a Superga. L’ultimo bus per questa zona è alle 8 di sera e quando non riesco a prenderlo, incrocio sempre qualche vicino che è pronto a darmi un passaggio.
Ora sto facendo il servizio civile e lavoro con dei ragazzi disabili. Ho capito che non siamo noi ad aiutarli, ma sono loro che aiutano noi e ci insegnano tante cose. Mi trovo molto bene con i miei colleghi di lavoro: festeggiamo i compleanni tutti insieme, come vecchi amici.
Se guardo indietro e penso a quello che mi sono lasciato alle spalle, provo nostalgia. Non so se rivedrò mai la mia famiglia. Però, allo stesso tempo, anche se sono lontano dal mio Paese, qui mi sento a casa.
Se non noi, chi? Se non ora, quando?
Si è appena conclusa la convivenza con Lamin ed è tempo di bilanci.
Ripensando a questi mesi appena trascorsi non possiamo che essere contenti e grati per come sono andati. Sono stati mesi intensi, in cui abbiamo dovuto ripensare non solo i nostri spazi per accogliere in casa un’altra persona ma soprattutto il nostro modo di rapportarci all’altro ed in parte i nostri caratteri.
Ci siamo confrontati con una cultura, una religione, un carattere ma soprattutto una storia diversa dalla nostra. Inizialmente non riuscivamo a superare le difficoltà della convivenza, le piccole incomprensioni che si venivano a creare, perché rimanevamo chiusi in noi stessi. La chiave di svolta c’è stata quando abbiamo iniziato a pensare “se è difficile per noi, quanto può essere difficile per lui?!”.
Lamin non ci ha mai raccontato tutta la sua storia, alcune cose preferiva non ricordarle ed è giusto cosi ma, nonostante la sua riservatezza ed il suo orgoglio (che ci ha portato a discutere diverse volte), è riuscito a renderci partecipi anche di una parte della sua vita , quella che ha lasciato in Gambia.
Ci siamo più volte scontrati con la sua testardaggine ed il suo orgoglio ma le scene di vita quotidiana che portiamo maggiormente nel cuore sono le braccia aperte di nostro figlio Pietro quando Lamin tornava a casa. Questa è una delle cose che ci rendeva più felici, contro tutti gli scetticismi di chi non concepiva un progetto simile con un bambino piccolo in casa.
Eppure questo progetto è servito, non solo a lui ma anche e soprattutto a noi. Ci ha insegnato tanto e ci ha dato la conferma che in un momento in cui l’indifferenza la fa da padrone, riuscire ad uscire da sé stessi per andare verso l’atro, è la chiave di svolta.
D’altronde, “se non noi, chi? Se non ora, quando? Se non qui, dove?”.
Una stanza in più per Saif
Massimo e Roberta sono una coppia romana, con due figli piccoli, che ha deciso di aderire al nostro progetto di accoglienza. Da tre mesi ospitano nella loro casa Saif, un giovane iracheno di 22 anni.
"Il desiderio di ospitare nasce dal voler restituire qualcosa, perché abbiamo avuto la fortuna di nascere in un Paese dove, nonostante alcuni problemi, si può crescere bene, in sicurezza", racconta Massimo. "Oltre a questo, c’era anche la volontà di prendere posizione, di dire da che parte si sta. Poi abbiamo preso questa decisione anche pensando ai nostri figli. Quando fra qualche anno saranno più grandi e mi chiederanno “Voi cosa avete fatto”?, avrò una risposta. Abbiamo anche ridato vita ad una stanza vuota, che era diventata un magazzino, mentre ora ha un nuovo “proprietario”. Mi piacerebbe anche che si parlasse di più dell’accoglienza in famiglia, per cercare di cambiare la narrazione dominante sul tema dei rifugiati".
"All’inizio", aggiunge Roberta, "ci siamo confrontati con altre famiglie che stavano facendo questa esperienza di accoglienza, pensavamo anche noi di incontrare qualche difficoltà, come è naturale che sia. Invece sta andando tutto molto bene. Saif è un ragazzo indipendente ma, allo stesso tempo, ha un forte senso della famiglia: ha creato un bellissimo rapporto con i nostri figli, che lo adorano.
È una esperienza arricchente, qualcosa che ci fa sentire più grandi della nostra stessa famiglia. Sembrerà retorica, ma è molto di più quello che riceviamo di quello che diamo".
Saif, da parte sua, conferma che la possibilità di vivere con una famiglia italiana gli sta rendendo più semplice adattarsi al modo di vivere del Paese che lo ospita. "Non basta imparare la lingua e trovare un lavoro, ma bisogna capire anche la cultura italiana e in questo Massimo e Roberta mi stanno aiutando tantissimo. Saif faceva il panettiere quando viveva ancora a Baghdad, e ora, a Roma, ha trovato un lavoro simile in una panetteria del centro. Il suo sogno è poter aprire un negozio tutto suo. "Gli orari sono un po' pesanti perché lavoro di notte, ma è questo quello che amo fare. L'odore del pane appena sfornato la mattina...non potrei farne a meno e mi riporta indietro nel tempo, quando vivevo ancora in Iraq. È il profumo di casa".
Pier Carlo e Aly: la nostra seconda convivenza a Ravenna.
“Quando racconto ai miei connazionali che vivo con gli italiani mi rispondono: Wow!’ e mi fanno i complimenti. Aly Doukoure, 21enne, proveniente dalla Guinea Konakry è molto soddisfatto dei due mesi passati in casa di Pier Carlo, un uomo che definisce buono e intelligente. Si tratta della seconda convivenza fatta
partire dal gruppo ravennate di Refugees Welcome Italia.
“Mi piace vedere che Pier Carlo e io abbiamo dei modi di fare un po’ differenti. Grazie a lui capisco un po’ di più anche tutti gli altri italiani. Appena arrivato mi stupivo del fatto che nessuno rispondeva al mio saluto. Ora comincio a capire come comportarmi”.
Aly è sbarcato a Catania nel giugno del 2016, passato per Bologna, è stato ospite di un progetto della Prefettura in provincia di Ravenna. “Appena ricevi il permesso di soggiorno devi uscire dal progetto e il mio operatore mi parlò di Refugees Welcome. Sono stato molto contento di fare questa esperienza anche se solo perdue mesi. Ora sono in partenza per il mio paese. Devo andare a rifare il passaporto. A febbraio tornerò in Italia e non so bene che cosa farò. Sono un operatore del verde, ho fatto un corso di informatica e ho la patente del muletto. Spero di trovare presto un lavoro”.
Sebbene le convivenze del progetto siano, in genere, di sei mesi, in base alle necessità dei conviventi, possono avere anche una durata inferiore. “Sono uno di quegli italiani che non saluta. Mi faccio gli affari miei”. Si presenta
così Pier Carlo Ghiselli, ravennate in pensione, che ha sempre vissuto in altre città, essendo un direttore di ospedali. “Da molto tempo faccio donazioni a varie ONG come l’UNHCR, poi, mentre ero a Roma, ho letto su La Repubblica di questo progetto e appena tornato a Ravenna ho deciso di parteciparvi. La nostra convivenza è andata benissimo. Aly è una persona discreta. Poi la casa è grande e, quindi, ci siamo incrociati poco”.
Cucina in comune, qualche lavoretto condiviso, come sistemare il giardino o cambiare una lampadina. La convivenza tra i due è trascorsa tranquillamente. “Grazie ad Aly ho imparato delle cose che non sapevo sull’Africa, sulle diverse lingue e anche molte cose su di lui. Per esempio, fa uno strano utilizzo dei fornelli. Cucina la pasta come gli inglesi: scotta. Una sera mi ha lasciato a bocca aperta quando l’ho visto scendere le scale con indosso la maglietta della Juventus. Lui, le partite le guarda rigorosamente in chiaro. La competenza nell’uso della tecnologia la sta acquisendo qui in Italia. Credo che questa per Aly sia stata una pausa durante la quale ha avuto modo di riposare e di raccogliere nuove energie prima del suo rientro in Italia, quando inizierà la vera sfida”.
B. Nisci
A San Salvario, una nuova casa per Mulki.
L'atmosfera è quella di tipica di un appartamento condiviso da cinque ragazze, "millennials", come le chiamerebbero oggi. Si discute di pulizie. La suddivisione dei compiti domestici è affidata ad una app, che stabilisce i turni, anche se c'è chi preferirebbe il vecchio foglio attaccato al frigorifero. Siamo a San Salvario, uno dei nuovi quartieri della movida torinese. È qui che Mulki vive da cinque mesi, assieme ad Erica, Stefania, Rossella e Sara.
È arrivata dalla Somalia tre anni e mezzo fa, sbarcata in Sicilia e poi spostata a Chivasso, una città come un’altra per lei, come capita a tutti quelli che in meno di due giorni vengono trasferiti dall’isola verso posti di cui spesso non sanno nulla. Dopo tre anni in diversi centri di accoglienza, ora Mulki ha una stanza tutta per sé. È entrata nel programma Young Together sviluppato dal Consiglio Italiano per i Rifugiati e Refugees Welcome, che le ha dato la possibilità ci condividere casa e un pezzo della sua vita con ragazzi italiani suoi coetanei. Lo spirito del progetto è proprio questo: promuovere la convivenza reciproca fra giovani, italiani e rifugiati, perché dividere lo stesso appartamento è uno dei modi più naturali per conoscersi e superare pregiudizi e stereotipi.
"Avevamo una stanza libera e abbiamo pensato che vivere con qualcuno di un mondo così diverso fosse un’opportunità da cogliere". A proporlo è stata Erica, che è anche una attivista di Refugees Welcome e conosce bene il lavoro dell'associazione.
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