Si è appena conclusa la convivenza con Lamin ed è tempo di bilanci.
Ripensando a questi mesi appena trascorsi non possiamo che essere contenti e grati per come sono andati. Sono stati mesi intensi, in cui abbiamo dovuto ripensare non solo i nostri spazi per accogliere in casa un’altra persona ma soprattutto il nostro modo di rapportarci all’altro ed in parte i nostri caratteri.
Ci siamo confrontati con una cultura, una religione, un carattere ma soprattutto una storia diversa dalla nostra. Inizialmente non riuscivamo a superare le difficoltà della convivenza, le piccole incomprensioni che si venivano a creare, perché rimanevamo chiusi in noi stessi. La chiave di svolta c’è stata quando abbiamo iniziato a pensare “se è difficile per noi, quanto può essere difficile per lui?!”.
Lamin non ci ha mai raccontato tutta la sua storia, alcune cose preferiva non ricordarle ed è giusto cosi ma, nonostante la sua riservatezza ed il suo orgoglio (che ci ha portato a discutere diverse volte), è riuscito a renderci partecipi anche di una parte della sua vita , quella che ha lasciato in Gambia.
Ci siamo più volte scontrati con la sua testardaggine ed il suo orgoglio ma le scene di vita quotidiana che portiamo maggiormente nel cuore sono le braccia aperte di nostro figlio Pietro quando Lamin tornava a casa. Questa è una delle cose che ci rendeva più felici, contro tutti gli scetticismi di chi non concepiva un progetto simile con un bambino piccolo in casa.
Eppure questo progetto è servito, non solo a lui ma anche e soprattutto a noi. Ci ha insegnato tanto e ci ha dato la conferma che in un momento in cui l’indifferenza la fa da padrone, riuscire ad uscire da sé stessi per andare verso l’atro, è la chiave di svolta.
D’altronde, “se non noi, chi? Se non ora, quando? Se non qui, dove?”.