TROUGH MY EYES ATTO III: LA STORIA DI FRED E NABI
Fred e Nabi sono due ragazzi ivoriani di 19 anni , arrivati in Italia ancora minorenni dopo un viaggio lungo e duro, entrambi nel 2016. Così diversi, eppure uniti in un percorso che giorno dopo giorno li ha visti condividere praticamente tutto.
Assieme hanno affrontato tutta la loro avventura nel nostro Paese: il centro di accoglienza, l'inizio degli studi in falegnameria, la patente, lo stage in una libreria in centro città per rendersi indipendenti, l'esperienza in famiglia grazie a Refugees Welcome Italia.
Tuttavia la vita spesso si rivela imprevedibile. E così, da un giorno all’altro, a causa della pandemia, Fred e Nabi si sono ritrovati senza stage, e senza tutte le attività con cui si stavano costruendo un futuro. Perché se è vero che di fronte al virus siamo tutti uguali, è altrettanto vero che l’epidemia di coronavirus rende tragicamente evidenti le disuguaglianze e la precarietà in cui vivono molti ragazzi come Fred e Nabi, scappati da soli, a 16 anni, per cercare un futuro migliore in un Paese straniero e coinvolti in una pandemia inaspettata e drammatica durante la quale si sono subito offerti per "dare una mano", collaborando con una associazione di volontariato per offrire cibo ai più poveri.
Nel terzo e ultimo episodio di Through my eyes, i dure ragazzi, telecamera alla meno, hanno raccontato questa loro esperienza di quarantena: un racconto dolce-amaro in cui emerge tutta la loro umanità.
Through my eyes atto II: la storia di Mamadou
Mamadou viaggia da sei anni. Ha poco più di vent’anni e non si è mai fermato.
Il viaggio l’ha portato in Italia.
Ogni giorno viaggiava per andare al lavoro a Settimo Torinese. Ogni giorno viaggiava per tornare ad Avigliana, in famiglia, a casa da Matteo, Francesca e Zena.
“Qui ho trovato una nuova famiglia, una nuova casa”, racconta Mamadou quando gli chiedono che cosa rappresenti questa convivenza. Ma ironia della sorte, nella sua casa, nella sua nuova casa oggi deve trascorrere tutto il suo tempo, a causa delle restrizioni contro la diffusione del Coronavirus.
Attraverso gli occhi di Mamadou, le giornate sono i video su TikTok, un po’ di noia, Matteo che si mette alla scrivania, Francesca che entra e esce per andare al lavoro. E il suo studio. Attraverso i suoi occhi Mamadou sta cercando di decodificare l’Italiano un po' contorto del codice della strada e dei quiz per l’esame teorico di guida. Perché il sogno di Mamadou è prendere la patente.
Mamadou, Francesca e Matteo sono i protagonisti del secondo capitolo di Through my eyes,
Through My Eyes è il progetto video basato sulla metodologia partecipativa, finanziato nell’ambito del bando Frame, Voice Report dell’Unione Europea e promosso da Refugees Welcome.
Il periodo del lockdown è una specie di post scriptum a quanto raccontato in prima persona da Mamadou nel periodo nel quale ha guardato il mondo attraverso la sua telecamera, insieme a Francesca e Matteo, grazie alla supervisione della regista Beatrice Surano. Mamadou, Matteo e Francesca con Through My Eyes hanno lasciato tracce dell’inverno ad Avigliana, delle feste di Natale, del desiderio di Mamadou di poter mettersi al volante di una macchina. Perché per chi non si è mai fermato, per chi viaggia da sempre, quel documento non è affatto un punto di arrivo, ma un punto di partenza. In tutti i sensi.
Poi è arrivato il virus e tutto è cambiato. Anche quelle immagini tra gli spazi aperti della Valsusa, i giochi con l’amica Zena: la coinquilina a quattro zampe, una splendida meticcia che Mamadou coccola col cibo, tutto resta impresso nel video e resterà come memoria di un tempo e di abitudini che appaiono anche più lontane di quanto lo siano in realtà in senso strettamente cronologico.
Ma a volte, si sa, il tempo viaggia fuori sincrono rispetto al calendario.
E così il racconto dei tre giovani tra i 20 e i trent’anni raccolti in settanta metri quadrati, tre stanze e tante esperienze precedenti è il secondo atto di Through My Eyes. Prende il testimone (e la videocamera) da Abdullahi e prosegue il viaggio del video partecipativo, aggiungendo tanti occhi a quelli già portati a bordo.
Perché se ogni persona è una storia, l’accumulo di storie è molto più di un documentario, un video o immagini impresse. È memoria di un tempo. È un racconto nato attraverso i loro occhi per arrivare ai nostri. E lì restare.
Through my eyes, ATTO I: la storia di Abdullahi
Attraverso i suoi occhi, la linea, quasi un confine che gli si pone davanti, è quella dell’arrivo. Ma Abdullahi sa che ogni traguardo è una nuova partenza, ogni approdo è l’inizio di un nuovo viaggio. Abdullahi Ali è sbarcato in Italia tre anni fa. Lui è di origine somala, è nato nel 1996, ma oggi vive a Superga. Abita in famiglia: vive con loro e lavora a Torino. E una volta all’anno partecipa a una gara podistica che si corre in collina. Nel 2018 aveva il pettorale 202 ed è arrivato terzo. Nel 2019 ha avuto nuovamente il pettorale 202, ma questa volta ha tagliato quel traguardo, quel confine, prima di tutti.
Termina con queste immagini la prima clip raccolta da “Through My Eyes”, il progetto video di Refugees Welcome Italia basato sulla metodologia partecipativa, finanziato nell’ambito del bando Frame, Voice Report dell’Unione Europea che ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi legati agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili.
In circa due mesi, Abdullahi, la sua famiglia, i suoi compagni di lavoro si sono raccontati attraverso una videocamera. Circa due mesi di immagini montate da Abdullahi e dalla regista Beatrice Surano (coordinatrice del progetto insieme ad Alessandro Cappai).
“E che mi fa sentire a casa”, sussurra Abdullahi quando nella sua cameretta si punta l’obiettivo addosso e guarda oltre lo specchio per ripercorrere la sua fuga. Un percorso lungo tanti Paesi dell’Africa fino all’Egitto: una rotta dove la terra, sotto forma di deserto, è letale quanto il mare. “A volte non mi piace ricordare questi momenti - dice -, perché sento che mi manca ancora qualcosa”.
E Trough My Eyes è lo sguardo oltre quell’orizzonte. Il racconto è soprattutto la storia del presente, della nuova famiglia, di Refugees Welcome nelle persone di Elena e Federico e dei suoi nuovi amici. Ecco perché Abdullahi Ali nei dieci minuti del suo video personale testimonia anche i giochi in salotto coi fratellini italiani, gli abbracci con i ragazzi e gli animatori di Artemisia: il laboratorio per ragazzi disabili nel quale svolge il servizio civile.
Una nuova vita riassunta in dieci minuti di immagini tra le quali c’è anche l’autobus che lo porta da casa al lavoro. E c’è una strada che, quando non si può percorrere coi mezzi pubblici, diventa l’occasione per trovare un passaggio offerto da qualche vicino che la sera sale a Superga. Ci sono le cene, “come una vera famiglia”, tutti insieme nelle serate invernali, aspettando la primavera per tornare di nuovo in cortile e giocare a pallone.
Da Abdullahi a Mamadou: il secondo capitolo del progetto Through my eyes
Intorno al tavolo ci sono Francesca, Matteo e Mamadou, subito sotto, nella sua cuccia, c'è Zena. La seconda famiglia che si racconta attraverso i "suoi" occhi, vive ad Avigliana. Mamadou, 21 anni, proveniente dal Senegal, ha raccolto il testimone (e la videocamera) dalle mani di Abdullahi ed è pronto a documentare in prima persona la sua storia di convivenza.
Through My Eyes, il progetto video basato sulla metodologia partecipativa e finanziato nell’ambito del bando Frame, Voice Report, fa la sua seconda tappa ad Avigliana, in Val di Susa, provincia di Torino.
Cambia la situazione di accoglienza rispetto al capitolo precedente, perché Francesca, Matteo e Mamadou condividono gli spazi casalinghi, il tempo del lavoro e delle feste, come tre ragazzi divisi da pochi anni di differenza.
Così sta nascendo il secondo capitolo di una storia che la regista Beatrice Surano dovrà poi cucire insieme. Il Through My Eyes (attraverso i miei occhi) targato Mamadou ha un sapore molto più collettivo e condiviso che trasforma la prima persona singolare in plurale.
Through "our" eyes nella versione di Mamadou inoltre si sviluppa anche nel tempo particolare delle feste natalizie, a poche settimane dall'inizio del suo lavoro come operaio in un magazzino di arredamenti. Guardando le immagini che Mamadou, Francesca e Matteo hanno girato ci sono anche i racconti delle cene con gli amici, delle passeggiate al lago con la piccola Zena e del pranzo di Natale con la famiglia allargata, la nuova "famiglia del giovane di origine senegalese. Perché Mamadou, con o senza la videocamera che sta usando in queste settimane, racconta della sua vita fatta di molte relazioni: dagli amici di Torino dai quali si ferma a dormire quando i tempi non gli consentono di tornare in Val di Susa ai colleghi coi quali consegna e monta i mobili. Poi ci sono, tra le inquadrature e no, le sue sue analisi delle partite di calciouna passione che si porta dietro da bambino, la voglia di prendere la patente di guida e qualche aneddoto sulla sua casa in Senegal dove c'erano altri cani come Zena, ma dove coabitavano anche molti altri animali.
Lo sguardo di Abdullahi ci porta al centro ArtemiSta
Abdullahi tutte le mattine prende bus e tram e arriva al lavoro. I suoi orari, i suoi ragazzi e gli educatori di ArtemisTa, Torino, sono coprotagonisti della sua quotidianità.
“Trough my eyes”, attraverso i miei occhi, è un racconto comunitario e immersivo che mette tutto il micro mondo di Abdullahi davanti e dietro la telecamere. Insomma, i “miei occhi” non si riassumono sono un unico punto di vista, ma diventano di volta in volta lo sguardo del protagonista o di qualcun’altro che oggi vive con lui.
Continua così il video partecipativo promosso promosso da Refugees Welcome Italia e finanziato nell’ambito del progetto Frame, voice, report! che sta coinvolgendo da qualche mese una documentarista, Beatrice Surano, e il ragazzo di origini somale che si trova in famiglia a Torino grazie all’attività dell’associazione nell’area torinese.
La mattinata parte per strada, alla fermata del tram, lungo i passi che il giovane percorre tutte le mattine, ma poi diventa corale quando Abdullahi entra nel laboratorio artistico e i ragazzi parlando con lui, parlano di lui e, soprattutto, iniziano a lavorare insieme.
L’occhio della videocamera si sposta di mano in mano: a volte guarda da fuori, grazie all’obiettivo di Beatrice Surano, per seguire in scala uno a uno la giornata di Abdullahi, ma continua con la mano (e gli occhi) di Abdullahi e degli altri ragazzi del centro.
Per la cronaca, la giornata inizia con l’incontro tra educatori e ragazzi per pianificare le attività giornaliere. Non c’è tanto tempo da concedere alle parole perché il laboratorio gestito dalla cooperativa Stranidea sta impacchettando tutti i lavori di ceramica da consegnare ai punti vendita in vista delle vendite di Natale.
Il lavoro di Abdullahi è questo: seguire insieme agli educatori i ragazzi nella produzione di manufatti artigianali.
“Facciamo di tutto - racconta il nostro protagonista - girando tra gli scaffali pieni: piatti, statuette, ciotole e anche oggetti più piccoli da regalare”.
Ma quelli che si trovano nel piccolo showroom sono l’ultimo passaggio del lavoro. Perché finita la riunione e la divisione dei compiti giornalieri, Abdullahi è pronto a vestire il suo grembiule per mescolare acqua e terra coi suoi ragazzi oppure stendere un panetto con il torchio per continuare la creazione di piatti e insalatiere. E mentre la radio propone pezzi anni Novanta che qualcuno canta, si continua a colorare il materiale crudo prima dell’ultimo passaggio in forno.
Una mattinata senza pause ma piena di entusiasmo che termina col pranzo tutti insieme, quando i ragazzi, in fila dietro ad Abdullahi lasciano il laboratorio e aspettano il pomeriggio che ogni volta riserva ulteriori attività e stimoli.